Deideri, dai gessetti alla lim
La prof dell'Andriano racconta 40 anni di scuola
«La scuola è soprattutto relazione». Va in pensione l’insegnante, Graziella Deideri, dopo una vita spesa tra cattedre, ragazzi e comunità. Sessantasette anni, laureata in Pedagogia all’Università di Torino e specializzata in Psicologia sociale a Milano, è stata molto più che un’insegnante: è stata un punto di riferimento per studenti, colleghi e territori. Coniugata con Gualtiero Freiburger, ha quattro figli, Giacomo, panificatore del Forno di Mondonio, Margherita, medico, e i gemelli Pietro, musicista e Damiano, agronomo.
Com’è iniziata la sua carriera nel mondo dell’educazione?
Dopo la laurea in Pedagogia a Torino, mi sono specializzata in Psicologia sociale a Milano. Ho iniziato con la consulenza psicologica in varie scuole del Torinese, poi ho insegnato alla Scuola professionale per Infermieri di Chieri, nella formazione degli Adest, oggi OSS, e nella preparazione dei primi docenti di sostegno all’Istituto Toniolo.
E l’insegnamento scolastico vero e proprio?
Ho insegnato Scienze umane al Monti di Asti e, nella parte finale della mia carriera, Scienze umane e Psicologia all’ Andriano.
In quasi quarant’anni, la scuola è cambiata molto.
Moltissimo. Dalla scrittura a mano dei registri alla compilazione di quelli elettronici, dalla lezione frontale ai meet online, dalla lavagna coi gessetti alla LIM… Questi strumenti hanno moltiplicato le possibilità di coinvolgere gli studenti. Ma al centro resta sempre la relazione educativa.
Che tipo di relazione?
Quella tra docente e discente. È un rapporto vivo, che richiede ascolto, flessibilità, capacità di mettersi in gioco. Un lavoro stimolante che non ti fa mai sentire del tutto pronto, al massimo allenato. E le sfide non mancano mai.
Una sfida in particolare?
Senza dubbio, i social e il mondo digitale. Sono “concorrenti e detrattori” potenti. I ragazzi oggi arrivano alle superiori con un’abitudine agli schermi che condiziona il modo di apprendere.
In che modo?
La soglia dell’attenzione è più bassa, i tempi di concentrazione più brevi. E poi c’è un dato meno visibile ma molto concreto: dormono meno. Sempre più spesso arrivano in classe stanchi, con un sonno interrotto da smartphone e notifiche. Questo incide moltissimo sulle capacità di apprendimento.
Lei ha definito il cellulare un “terzo incomodo”. Che intendeva?
Intendevo che, se non si stabiliscono regole e confini, il cellulare interrompe la relazione didattica. Lo dicevo spesso ai ragazzi, anche con ironia: il telefonino rischia di mettersi in mezzo tra loro e me. Non è solo una distrazione: è una presenza che, se non governata, spezza il filo dell’insegnamento.
Eppure, proprio la tecnologia ha permesso alla scuola di sopravvivere durante il Covid.
Assolutamente. Ma il Covid ci ha anche ricordato quanto sia insostituibile la relazione dal vivo. La scuola è relazione, è incontro. Nessuna piattaforma digitale può davvero sostituire quello scambio umano.
Come descriverebbe l’esperienza all’Istituto Andriano?
Molto significativa. Una scuola connessa col territorio. Il corso dove ho insegnato, così come quelli informatici e meccanici, ha creato una rete viva con i servizi sociali, le scuole dell’infanzia, le comunità assistenziali, l’ASL, le cooperative. La teoria, per me, si nutre del confronto con la realtà.
Avrà molti ricordi significativi…
Tantissimi. Ricordo i progetti di lettura ad alta voce con i bambini, le attività alla Biblioteca civica, i laboratori informatici con gli anziani della casa di riposo, “Carta, penna, computer”, le uscite nei servizi per le dipendenze, o in quelli che si occupano di malattie neurodegenerative. Occasioni per imparare fuori dalla scuola, come diceva De Bartolomeis.
Un modo concreto di vivere le Scienze umane?
Sì. Le Scienze sociali non si insegnano solo dai libri. Bisogna farle vivere, metterle in relazione con il mondo. Questo dà senso all’insegnamento, stimola gli studenti e li aiuta a scoprire chi sono. A tirar fuori capacità che nemmeno sapevano di avere.
E sul piano più personale?
Ricordo quei momenti in cui, parlando liberamente, uno studente comincia a intuire un futuro, una vocazione. Oppure quando, dopo tante difficoltà, un ragazzo riesce a superare un ostacolo e ti guarda negli occhi dicendo: “Prof, ho capito. Grazie”. Quegli sguardi, quei sorrisi, valgono tutto.
Che idea ha oggi dei giovani?
Sono pieni di potenziale, di forza e anche di fragilità. Ma proprio in quel mix c’è tutta la loro bellezza. La relazione con loro, anche quando si fa complessa, è il cuore pulsante di questo mestiere.